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In particolare nel secondo Ottocento e nella prima metà del Novecento l'italiano si impone quale lingua principale della cultura, oltre che dell'ufficialità politica. Lo spagnolo è ormai uno sbiadito ricordo, mentre il sardo arretra, nonostante la sua letteratura peculiare produca opere e figure di una sconcertante modernità come quelle di Pascale Dessanai e Peppino Mereu. I ceti intellettuali regionali si allargano e utilizzano prevalentemente l'italiano anche se, in una prima fase, posseggono ancora il sardo. La scuola si estende, la stampa si diffonde, l'impiego pubblico si rafforza e tutto ciò favorisce la creazione di un ceto medio dagli interessi che superano i limiti regionali. Lo Stato invia in Sardegna insegnanti, funzionari, dirigenti "del continente" contribuendo a diffondere la lingua dominante. Si diffondono riviste di cultura letteraria prevalentemente italiana e si pubblicano libri con le traduzioni, in italiano, anche di grandi opere internazionali. Chi scrive in Sardegna aspira a essere letto anche oltremare. Di qui la scelta inevitabile, dettata dalle condizioni storiche, a favore dell'italiano. Enrico Costa, Sebastiano Satta, Grazia Deledda ottengono risultati prestigiosi. Ma anche altri intellettuali quali Ottone Bacaredda, Salvatore Farina, Stanis Manca, Raffaele Garzia, Carlo Brundo si segnalano nel primo Novecento. Anche la lingua sarda si adegua alla modernità e trova nel tedesco Max Leopold Wagner lo studioso che la farà conoscere al mondo.
Le circostanze legate al conflitto del 1915-18, e al tumultuoso dopoguerra, ebbero una notevole ricaduta in Sardegna. Grazie al reclutamento su base territoriale, un centinaio di migliaia di richiamati isolani ebbero la possibilità di sperimentare comunitariamente una vicenda atroce, straniante, ma formativa. Al ritorno, proprio gli ex combattenti si organizzarono prima in movimento, e poi in formazione politica, dando origine al Partito Sardo d'Azione. L'intervento del fascismo (che nasceva anche esso dall'attivismo degli ex combattenti) bloccò sul nascere questa interessante esperienza di regionalismo autonomista. Alcuni furono costretti al silenzio come Cammillo Bellieni, altri inglobati nel cosiddetto sardo-fascismo come Paolo Pili, altri ancora, come Lussu, sottoposti al confino, preferirono fuggire all'estero. In questo clima, si consuma il dramma personale dell'"emigrato" Antonio Gramsci (da giovane anche lui sardista) che viene imprigionato e lasciato quasi morire in carcere. Il regime tiene l'isola in pugno. Quando, verso la metà degli anni trenta, Emilio Lussu da Parigi chiamerà a raccolta i sardi per combattere in Spagna, solo Dino Giacobbe e pochissimi altri rispondono. La cultura rallenta, ma non si arrende. C'è un rinnovato interesse per la storia con Raimondo Carta Raspi e lo stesso teorico sardista Bellieni. Di letteratura in chiave storica si occupa Egidio Pilia, mentre intorno alla rivista "Il Nuraghe" si mettono in evidenza gli scrittori Pietro Casu, Giovanni Antonio Mura, Lino Masala Lobina, Filiberto Farci, Filippo Addis.