Come tutte le lingue anche il sardo è caratterizzato dal fenomeno della variazione continua e costante. Questa mutazione perpetua della lingua può verificarsi secondo un criterio storico, sociale, soggettivo, funzionale e geografico. Da un punto di vista storico la lingua cambia nel tempo e abbiamo quindi delle "varietà storiche" che si differenziano tra loro. È ovvio che il sardo parlato e scritto nel Medioevo, vista l'evoluzione costante e continua della lingua, è diverso da quello parlato oggi. Lo stesso sardo che parlavano i nonni non è, e non può essere, quello che parlano i giovani di oggi. Da un punto di vista sociale le lingue cambiano a seconda del loro uso in determinati gruppi sociali. Per esempio la lingua che parlano le classi benestanti non è quella che parlano i ceti meno abbienti. In questo caso si parla di "socioletto". Allo stesso tempo la lingua cambia anche in funzione di elementi soggettivi (ognuno nella lingua compie scelte individuali) e abbiamo allora "l'idioletto", il linguaggio che parla ognuno di noi. Così come, a livello funzionale, si distinguono i vari linguaggi di settore (tecnoletti) che sono i linguaggi tecnici di ogni singola categoria professionale. Ma la mutazione linguistica che più ci interessa è quella "geografica", ovvero la divisione della lingua in dialetti (o geoletti, per gli esperti) che riguarda ovviamente anche il dominio linguistico sardo. Ogni classificazione dei dialetti è una convenzione, il tentativo di mettere ordine in una situazione naturalmente confusa.
Varietà campidanesi
Ogni classificazione è sempre arbitraria, ma in Sardegna all'interno dei dialetti propriamente sardi la prima e fondamentale divisione riguarda lo spazio linguistico settentrionale, in cui è parlato il logudorese, e quello meridionale, in cui è parlato il campidanese. Le differenze tra le due grandi famiglie dei dialetti sardi sono più apparenti che sostanziali, in quanto si riscontra una sostanziale unità linguistica e sintattica. Non sono certissimi neanche i confini tra le due aree in quanto esiste un'area mediana dove esistono parlate che manifestano esiti contemporanei del logudorese e del campidanese. Da Wagner in poi si suole indicare nei dialetti dell'area campidanese (che comprende grosso modo anche il Sulcis, il Sarrabus, la Trexenta, la Marmilla, parte dell'Ogliastra e il Sarcidano) quelli che sarebbero stati maggiormente trasformati dal contatto innovativo con il pisano e il toscano nel medioevo. In particolare: la palatalizzazione delle occlusive velari, esemplificata dal tipo "c(éntu", e l'esito italiano delle labiovelari, come mostra il tipo "ákwa"). Tali conclusioni sono messe in discussione da nuovi studi che farebbero derivare le differenze dai tempi diversi della latinizzazione. Le varietà campidanesi sono caratterizzate dall'articolo plurale unico "is", dall'infinito della prima coniugazione in "ai" (andai, torrai, giogai), dalle uscite della seconda e terza coniugazione in "iri".
Varietà arborensi
Rispetto alla presenza nel sardo di un'area dialettale che sfugge alla classificazione scolastica del campidanese e logudorese si sono pronunciati studiosi illustri, primo fra tutti Vittorio Angius, seguito recentemente da Antonio Sanna, Giulio Paulis e Maurizio Virdis. A prescindere dalla sua origine storica, tra le due principali tendenze dialettali della lingua sarda si è sviluppata una zona di transizione che ha assunto, con caratteri diversi da zona a zona, una morfologia e un trattamento lessicale originale, mischiando quello delle principali varianti. La fonetica e il vocalismo in genere sono quelli del logudorese. Alcuni tratti discendono invece dal campidanese. In particolare, in riferimento alla storia, si rintraccia questo tipo di lingua negli atti e documenti prodotti nel giudicato di Arborea in epoca medievale. Sia da alcuni Condaghi sia, in misura maggiore, dalle prime trascrizioni della Carta de Logu, risulta evidente l'autonomia di una varietà della lingua che conserva caratteri, mantenuti fino ai nostri giorni. Attualmente questa "zona grigia" dialettale si attesta particolarmente nella parte settentrionale e centrale della provincia di Oristano (Guilcer, Barigadu, Sarcidano), in alcune parti della provincia di Nuoro (Barbagia di Belvì e Mandrolisai) e nelle parlate dell'Alta Ogliastra che hanno avuto comunque uno sviluppo originale rispetto alle zone arborensi. Un termine sardo per indicare questo particolare esito delle varianti è "limba de mesania".
Varietà logudoresi
Le varietà logudoresi della lingua sarda sono state considerate dagli studiosi per molto tempo quelle più caratteristiche e conservative rispetto al latino. Gli esiti delle labiovelari ("limba" invece che "lingua", "abba" invece che "acua") e delle occlusive, nonché il trattamento morfologico e lessicale hanno confermato spesso questa tesi. Molti altri fatti potrebbero essere ancora enumerati per rendere conto delle differenze oggi osservabili fra il logudorese e il campidanese: l'articolo plurale diverso per genere (maschile "sos", femminile "sas" contro l'unico "is" delle varietà meridionali), la resistenza nell'uso di alcune forme pronominali ("nos ant bidu", ci hanno visto, per "s'ant biu"), una diversa impostazione della domanda con la particella "A" davanti ("A benis a domo?" per Vieni a casa?, contro "Benis a domu?". Nel logudorese inoltre le tre coniugazioni del paradigma verbale sono in "are", "ere" e "ire". Anche le varietà logudoresi (che si estendono ben al di là del Logudoro propriamente detto) al loro interno si suddividono in zone con caratteristiche divergenti e, in definitiva, volendo essere precisi ogni villaggio o paese ha la sua parlata differenziata. Le varietà più settentrionale hanno per esempio risentito del contatto con il toscano nel medioevo (si dice "fiore" invece che "frore") e hanno fonemi particolari nei nessi consonantici "sc", "lc" e altri. Le varianti del Baroniese, più vicine al barbaricino, hanno mantenuto la "t" intervocalica del latino "andatu" o "annatu" invece che "andadu". Il logudorese comune e regolare è considerato quello del Marghine e Goceano.
Varietà barbaricine
Una delle zone linguistiche più caratteristiche della Sardegna è la Barbagia di Ollolai, le cui parlate si distinguono per peculiari fenomeni fonetici, lessicali e toponimici. Chi ha individuato e segnato i limiti propriamente linguistici di questa subregione della Sardegna e del relativo dialetto barbaricino è il grande Max Leopold Wagner, maestro della linguistica sarda, in base ad alcuni fenomeni caratteristici e propri di questo dialetto: sul piano fonetico il cosiddetto "colpo di glottide" e l'"avversione alla consonante f", sul piano lessicale e su quello toponimico la conservazione, meglio che altrove, dei relitti della lingua che i Sardi parlavano prima della loro totale latinizzazione linguistica. Anche lo studioso tedesco Wolf ha dedicato molto del suo interesse a questi relitti, che si ritrovano sia allo stato di appellativi, sia e soprattutto allo stato di toponimi. Nell'opera "Studi barbaricini - Miscellanea di saggi di linguistica sarda" (Cagliari, 1992), Wolf sostiene che la Barbagia costituisca una zona assolutamente unica in tutta la Romània, perché in essa si registra la più alta percentuale di toponimi prelatini: addirittura più del 33%. La Barbagia attualmente è una delle zone dove il sardo è ancora parlato in misura notevole e resiste alla sostituzione dell'italiano. Alcune zone della Barbagia però parlano una varietà meridionale della lingua (Barbagia di Seulo), mentre altre parlano una varietà di transizione o mediazione (Mandrolisai, Barbagia di Belvì e Desulo).
La Sardegna crocevia di popoli e di lingue
Il sardo non è l'unica realtà linguistica nel territorio isolano. Le vicende storiche della Sardegna, da sempre crocevia di traffici, scambi e passaggio di popoli nel Mediterraneo, hanno notevolmente arricchito e complicato il paesaggio linguistico isolano. In particolare, la città di Alghero conserva all'interno delle sue mura una varietà locale della lingua catalana che fu importata nel medioevo dagli Aragonesi che ripopolarono di catalani il centro del Nord Sardegna, dopo averne evacuato i precedenti abitatori sardi, rei di aver resistito alla conquista. Sul turritano, o sassarese, non abbiamo queste certezze storiche, ma certamente si tratta di una lingua di contatto nata dall’esigenza di una lingua franca per i commerci e la comunicazione fra i vari gruppi linguistici. L'elemento sardo, quello corso, quello aragonese e quello genovese si mescolarono originalmente dando vita all'attuale parlata di Sassari, Porto Torres e Sorso. In epoca moderna l'isola di San Pietro, nel sud ovest dell'isola, fu ripopolata per volere dei regnanti sabaudi, con una colonia di pescatori liguri di Tabarca, in Tunisia, che aveva problemi di convivenza con le autorità africane. Questa comunità diede vita ai due centri di Carloforte e Calasetta che conservano anche ai giorni nostri l'antica parlata genovese. La medesima valenza attribuita alla lingua sarda è riconosciuta dalla legge regionale 26 al catalano di Alghero, al tabarchino delle isole del Sulcis, al dialetto sassarese e a quello gallurese.
L'algherese
Alghero, città sarda per vocazione ed elezione, conserva l'antica parlata catalana dei suoi abitatori medievali. L'antica "S'Alighera" resistette non poco agli invasori iberici e per questo fu oggetto di una vera e propria "pulizia etnica" che eliminò per sempre i sardi che l'abitavano originariamente. Si trasformò in "L'Alguer", centro abitato da genti di lingua catalana. Per quanto sia stato detto che il dialetto algherese tenda a sparire, è da credere che l'essersi questa lingua conservata per oltre sei secoli, nonostante la distanza con Barcellona, rassicura sul fatto che si debba inevitabilmente spegnere in avvenire. Il dialetto algherese odierno non è altro che la lingua parlata in Catalogna fra la metà del secolo XIV e la fine del XVII, isolata dalla restante area catalana evolutasi molto poco indipendentemente da essa, sotto l'influsso sempre crescente prima del sardo, poi dell'italiano. In altre parole, nel dialetto algherese, cessata la dominazione spagnola, ha continuato a sopravvivere una lingua del '400. Il catalano d'Alghero dunque è il catalano veramente antico di fronte al catalano d'oggi, nel senso che, mentre il primo è rimasto storicamente alla situazione del XIV-XV secolo, il catalano di Catalogna e quello delle Baleari hanno attraversato parecchi secoli di evoluzione, di adattamenti e di trasformazioni.
Il gallurese
Il gallurese è l'idioma parlato dalle genti che abitano la Sardegna nord-orientale. Secondo gli studiosi, si tratta di una lingua di contatto tra la parlata corsa e il sardo settentrionale. In sostanza sarebbe successo che, in successivi momenti dell'età moderna, gruppi consistenti di popolazioni corse avrebbero varcato lo stretto di Bonifacio e si sarebbero stabiliti nella Gallura, spopolata a causa di guerre e pestilenze. Da allora sarebbe comunciato una sorta di fenomeno a doppia dimensione. Da un lato il gallurese ha guadagnato sempre più terreno e numero di parlanti nei confronti del sardo; dall'altro, pur conservando una forma sintattica estranea alla lingua sarda, ha conformato il suo lessico a molte espressioni del logudorese. In questo modo è diventato il gallurese odierno, una lingua che non può considerarsi non pienamente sarda, anche se obiettivi criteri di scientificità obbligano a classificare questo idioma tra le varietà alloglotte. La legge regionale n. 26 del 1997 ha riconosciuto pari tutela al "dialetto" gallurese, insieme al sassarese, al carlofortino e al catalano di Alghero, nei confronti della lingua sarda propriamente detta. Da osservazioni recenti sembra che i parlanti galluresi siano in numero costante, mentre il sardo continua a perdere terreno. La presenza di genti corse in Sardegna, già in epoche anteriori rispetto a quanto si riteneva, è stata indagata recentemente da Mauro Maxia con crescenti conferme scientifiche sugli scambi di popolazione tra le due isole.
Il turritano
Il turritano, o sassarese, possiede caratteristiche intermedie tra il gallurese (di cui conserva la grammatica e la struttura) e il logudorese (da cui deriva gran parte del lessico). È un dialetto derivato, oltre che da una continua migrazione corsa, anche dalla forte influenza esercitatavi dai dominatori pisani, genovesi e catalani. Appartiene, unitamente al gallurese, al gruppo delle cosiddette varietà-ponte con il corso. Il dialetto sassarese è parlato in una piccola ma popolata fascia della Sardegna nord-occidentale: a Sassari, Porto Torres, Sorso, Stintino, nella Nurra. Comprende inoltre il nord dell'Anglona e i dialetti parlati a Castelsardo, Tergu, Sedini e a La Muddizza di Valledoria sul corso del fiume Coghinas al confine con il dominio del gallurese. Il turritano, chiamato anche sassarese, vede le origini agli albori della costituenda Repubblica di Sassari (XI sec.) con l’affermarsi della città in libero Comune protetto da Pisa e Genova, e la necessità di una lingua franca per i commerci e la comunicazione fra i vari gruppi linguistici. Ha la grammatica e la struttura dei verbi tipicamente simile al gallurese e al corso. Registra l'assenza del fenomeno fonetico della metafonia, tipico del sardo, e la caduta delle consonanti finali, ampiamente presenti in sardo.
Il tabarchino
Tipico caso di eteroglossia interna, - come scrive lo studioso Fiorenzo Toso - il tabarchino è una varietà di genovese trasferita dapprima (XVI sec.) sull'isola di Tabarca in Tunisia, e successivamente trapiantata in Sardegna nelle sedi attuali. Contestualmente, il tabarchino fu impiantato anche sull'isola di Nueva Tabarca (Alicante, Spagna), dove però risulta estinto dall'inizio del XX secolo. In Sardegna è parlato nei comuni di Carloforte (L'Uîza) e Calasetta (Câdesedda), rispettivamente sulle isole di San Pietro (San Pê) e Sant'Antioco (Sant'Antiócu) nella Sardegna sud-occidentale. La popolazione complessiva dei due comuni è di circa 10.000 unità delle quali, secondo le stime locali, oltre l'80% parla abitualmente il tabarchino. Questa variante della lingua ligure trapiantata nell'isola grazie ai Savoia gode di una certa tutela all'interno della Regione Sardegna in base alla legge regionale n. 26 del 15 ottobre 1997. Non è stata riconosciuta invece, al pari del sardo e del catalano di Alghero, dalla legge statale 482 del 1999. Gli statuti comunali di Carloforte e Calasetta prevedono l'utilizzo pubblico del tabarchino, ad esempio nelle sedute dei Consigli Comunali. Sebbene in forma non ufficiale, a livello orale il tabarchino trova impiego corrente in tutte le situazioni pubbliche e nei rapporti tra i cittadini e le istituzioni. Sebbene a livello non ufficiale, l'utilizzo del tabarchino è abitualmente inserito nelle attività didattiche delle scuole materne, elementari e medie dei due comuni.