BIASI E L’INVENZIONE DELLA SARDEGNA
Giuseppe Biasi, senza dubbio il maggior pittore sardo del Novecento, è un personaggio contraddittorio e affascinante: artista di raffinata cultura internazionale, eppure attaccatissimo alle proprie radici; abituato alla mondanità dei salotti, ma perfettamente a suo agio tra i pastori, nella solitudine degli stazzi; ironico, cinico, disincantato, e al tempo stesso romantico fino al midollo; fortemente individualista, ma pronto, in situazioni difficili, ad assumere coraggiosamente un ruolo di guida nei confronti dei colleghi; insofferente del clima della dittatura fascista, e però capace, per motivi ideali, di schierarsi col Fascismo nell’ora della sua crisi, quella della Repubblica Sociale. Questa contraddittorietà di scelte e di atteggiamenti, la stessa originalità della sua opera, piuttosto difficile da inquadrare nel panorama artistico italiano del primo Novecento, hanno finito per danneggiarlo. La critica nazionale lo ha per lungo tempo dimenticato, e in Sardegna è stato spesso attaccato, molto discusso, molto amato, ma generalmente poco capito. Dato che la sua opera torna con insistenza su un unico tema, la vita popolare sarda, si è voluto vedere in lui solo il pittore del folklore, l’illustratore di costumi. Poiché dipingeva soggetti locali, se ne è dedotto che il suo orizzonte fosse limitato e provinciale. Ma Biasi non è un cantore del colore locale e del pittoresco da cartolina: è un artista modernissimo ed estremamente personale, che ha scelto di percorrere la sua strada pur sapendo di muoversi controcorrente rispetto alla pittura italiana del proprio tempo. Se ha dedicato la vita a rappresentare la tradizione e i costumi della Sardegna, lo ha fatto perché, come altri intellettuali sardi del primo Novecento – a cominciare dagli scrittori Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Salvator Ruju –, si era assunto il compito di costruire una nuova identità per la sua terra, di aiutarla a liberarsi del peso di una lunga oppressione coloniale o semicoloniale. Come la Deledda o Ruju, si sentiva al bivio tra due mondi, diviso tra l’eredità ancora ben presente del passato contadino e pastorale e la modernità ormai alle porte. Di quel passato, che processi di trasformazione sociale e culturale sempre più rapidi minacciavano di cancellare per sempre, Biasi sentiva fortemente il fascino. Da intellettuale di città, subiva la seduzione di una civiltà infinitamente diversa da tutto quello cui era abituato, di luoghi dove il tempo pareva essersi fermato e dove ancora l’esistenza era scandita da ritmi immutabili, governata da riti e usanze antichissimi. Il mito del primitivo, il sogno di un mondo non guastato dalla civiltà e dal progresso ma vergine e intatto, ricco di energie vitali, è al centro del lavoro di Biasi come di tanti altri artisti della sua epoca, da Paul Gauguin a Gustav Klimt, da Pablo Picasso agli espressionisti tedeschi. Però, a differenza di Gauguin, Picasso o Klimt, Biasi non aveva bisogno di andare a cercare il primitivo nelle isole dei mari del Sud, nell’Africa tribale o nell’Oriente slavo e bizantino: gli bastava uscire dalla sua città, Sassari, e addentrarsi nei villaggi vicini come Ittiri ed Osilo. Qui sopravviveva una gente arcaica, misteriosa e solenne: uomini semplici e gravi come re pastori; donne silenziose e altere che camminavano con innata grazia, «con un passo che non è il passo di una contadina». Cosa avevano a che fare, quel mondo e quella gente, con la Sardegna descritta dalle commissioni d’inchiesta parlamentari e analizzata dagli antropologi, un’isola infelice afflitta dalla malaria, divorata dalla miseria e dalla fame, infestata dai banditi e lacerata dalle faide, popolata da una “razza delinquente”, da una popolazione ereditariamente predisposta al crimine? La nobile Sardegna primitiva e la terra miserabile in cui lo Stato italiano mandava per punizione i suoi funzionari indisciplinati erano in effetti due facce della stessa medaglia; lo splendore dei costumi popolari, la suggestiva bellezza delle feste contadine non escludevano la fame, il banditismo e le vendette. Ma Biasi sceglie di mostrare solo i primi, mettendo in atto una precisa inversione di valori: quella che era una terra desolata e selvaggia diventa un Eden primitivo, un paradiso esotico nel cuore dell’Europa, la “razza delinquente” degli antropologi assume i tratti di una razza eletta: «l’uomo non è l’uomo che si trova tutti i giorni – scriverà l’artista nel 1935 –. Perché se l’abito del lavoratore è sporco, il gesto lo tradisce … ed un gentiluomo di razza che venga qui e, sempre, quando viene … capisce subito che qui c’è una razza».
Attraverso il mito del popolo sardo come razza naturalmente aristocratica, il mondo contadino e pastorale cessa di essere emblema di sottosviluppo e di miseria per diventare il perno di una nuova identità. In questo modo il pittore contribuisce non poco a sostenere le aspirazioni verso una rinascita “nazionale” sarda che, risvegliate da scrittori come Satta, Ruju e la Deledda, verranno poi fatte proprie sul piano politico dal movimento sardista. Insieme allo scultore Francesco Ciusa e al pittore Filippo Figari, è il primo di una lunga serie di artisti che mette la Sardegna paesana al centro del proprio lavoro. L’invenzione di questa nuova immagine dell’Isola s’inserisce d’altra parte in un fenomeno culturale più ampio. Nei primi anni del Novecento, infatti, in molti paesi europei gli artisti scoprivano la tradizione popolare e la rielaboravano in chiave moderna, secondo una tendenza che in area anglosassone viene oggi definita Movimento Nazionale Romantico (National Romantic Movement). Si trattava di paesi periferici ed arretrati, o dall’identità instabile (la Serbia, l’Ungheria, l’Irlanda, la Norvegia, la Svezia ed altri), per i quali, come per la Sardegna, la creazione di forme d’arte incentrate sul recupero della tradizione rispondeva a un diffuso bisogno di riscatto nazionale. Il progetto di Biasi verrà spesso frainteso da quanti – specie nel secondo dopoguerra – gli rimprovereranno di aver trascurato di rappresentare la “vera” Sardegna, con la sua tragica realtà di sofferenza, per darne un’immagine falsa e di maniera. Questa accusa non tiene conto di come ai primi del secolo il compito più urgente fosse quello di restituire dignità e orgoglio a un popolo umiliato e rassegnato alla sottomissione. Ma è altrettanto chiaro che l’identità alla cui definizione Biasi contribuisce è un’identità borghese: la classe dirigente isolana scopriva in quegli anni se stessa nel confronto col “diverso”, con quel ceto agropastorale la cui arretratezza “primitiva” diventava sinonimo di forza schietta, sana e rinnovatrice.
Testo di Giuliana Altea