Il folletto dalle sette berrette
Una notte uno, dopo un paio d’ore che si era addormentato, sente come un affanno nel petto, come un peso che non lo lasciava respirare, una oppressione che non lo lasciava quietare. Si desta e dacché si avvede che ha il folletto dalle sette berrette sopra, stende la mano, gli piglia una berretta e la nasconde lesto lesto in una pentola fuligginosa. Il folletto che aveva una mano bianca come la neve, per la paura d’imbrattarsela, non cerca nemmeno di pigliargli la berretta e così il tesoro è rimasto a quello, perché così era stato destinato dal morto che l’aveva nascosto.
La donna col viso macchiato
Una mattina, una donna se n’era alzata presto presto per andare all’acqua alla fonte di Pástini. Era l’una di notte, quando, arrivata vicino a un fiume che vi è a fianco alla fontana, sente come il rumore d’una che sia sciacquando. S’accosta al fiume e vede questa giovane sciacquando i pannolini d’un neonato e pronta pronta le dice: «Vuol dire che l’ora non ha ingannato se non che me (me sola), e non sai che te ne sei venuta bella lesta a lavare?!». E quella senza rispondere; allora si accosta di più e glielo torna a dire. Alla terza volta, quella alza il capo, le scaglia il pannolino sulla faccia e le dice: «Eh che mi hai fiaccata (interrotta) la penitenza!». Era l’anima di una giovane morta nel parto e quella donna, dal giorno (da quel giorno), ebbe il viso macchiato.
La schiera dei morti
Sono già tanti secoli che in Tempio vi aveva una signora ricca ricca ma avara. Questa un giorno va in chiesa e in una sedia si dimentica il rosario e la chiavetta della cassaforte. Arrivata a casa, se ne avvede e manda la serva a prenderla. Siccome era notte, la serva prima non ci voleva andare, ma dopo vi è andata. Vicino alla chiesa, incontra tre uomini, si avvicinano e saputo dov’era andando le dicono: «Mira, in chiesa troverai la schiera dei morti, mira che balleranno in giro a te, cercheranno di farti male, tu non temere, ma fatti la croce e dí queste parole:
Ho incontrato in via
Paolo, Pietro e Andrea
E stanno venendo con meco
Andrea, Paolo e Pietro
Son con meco in compagnia
Paolo, Pietro e Andrea.
La serva entra in chiesa, trova la schiera che gliene fa di tutti i colori, ma essa non teme, dice quelle parole e la schiera scompare.
Nuraghe di vacca
Era una notte tempestosa, nelle campagne di Luogosanto vi aveva un silenzio grande, pareva che tutti fossero addormentati. Ecco che in quel buio, si vede un uomo incappucciato, col fucile in collo e la lancia in mano. S’accosta a uno stazzo, guarda bene in giro e dacché non vede anima viva, entra, ruba una vacca e corre finché arriva a un nuraghe. Qui si riposa, lega la vacca a un masso grande di pietra e si prepara ad ammazzarla. Guarda di nuovo in giro ed è pronto già ad infilarla con la lancia, quando si sente, in quella notte silenziosa, un colpo di archibugio e un grido. L’uomo incappucciato lascia andare la lancia e cade morto. Intanto un altro uomo si avvicina al nuraghe, prende la vacca e la porta al suo stazzo. Da quella notte, e son già secoli, il nuraghe ha preso quel nome.
La potenza della felce maschio
Un bandito, il giovane più fiero della Gallura che nemmeno la giustizia aveva potuto prendere, si era posto in mente di avere i tre fiori della felce maschio, perché se si avevano questi tre fiori, non si poteva morirne, quando si era colpiti dal piombo. Per avere questi tre fiori, bisognava andare in un fiume lontano lontano donde non si poteva intendere canto di gallo e bisognava andare il primo giorno di agosto. Questi fiori sarebbero sbocciati a mezzanotte, ma non bisognava avere nessuna paura per qualunque cosa si fosse presentata. Dunque questo bandito, il primo giorno d’agosto, si pone in cammino per andare a questo fiume; quando era uscito, la nottata era proprio bella, ma a mezzanotte si scatena questa po’ po’ di tempesta: grandine, lampi, tuoni, baleni, lingue di fuoco da tutte le parti, sopra il capo, nei piedi ed egli fermo, aspettando a sbocciare il fiore. Ecco che alla luce d’un lampo, vede sbocciando il fiore, lo raccoglie e aspetta il secondo. Egli aspetta senza spaventarsi per vedere passando (passare) tori, vacche, cinghiali che cercavano di dargli (fargli del male). Ecco che viene un serpente; questo comincia a stringergli la caviglia, la coscia, e a poco a poco arriva al collo e sembra che lo voglia strangolare; egli si crede proprio all’estremo, quando il serpente se lo guarda fisso negli occhi e manda un fischio stridente, scompare e sboccia il secondo fiore. Il bandito è tutto contento e, credendo di poter liberare così subito subito l’uomo dal piombo, aspetta il terzo fiore. Passano pochi minuti, quando in mezzo a quel silenzio, s’intende questo po’ po’ di frastuono, di cavalli e di uomini armati; nel principio il bandito con la speranza è stato fermo al suo posto, ma quando vede accostandosi (accostarsi) una frotta di carabinieri, teme, crede che sia scoperto e tira un colpo d’archibugio. Il terzo fiore certamente non è sbocciato, peggio per l’anima dell’uomo che non ha resistito, e il piombo, per conto suo, è facendo (continua a fare) il suo cammino.
Le Gianas e le Signore di Donnigazza
Le Gianas erano piccoline piccoline e vivevano nelle case delle Gianas in Trempu e in San Giovanni. Erano molto belle e si vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito e posto alla Santa Zita e con le collane d’oro e cucivano e filavano e lavoravano nella loro terra. Le case delle Gianas sono sul monte e i mobili erano piccolini come esse e tutti i piatti fioriti. Questa gente vivevano appartate dalle altre ed erano molto religiose; la chiesa loro era come la teniamo noi. Siccome le Gianas erano molto ricche, nel loro recinto hanno trovato molte cose di valore. Quando nonna era piccola ne aveva visto una in Orgono che l’aveva toccata e l’aveva interrogata dove andava e se voleva andare insieme con essa; essa ha temuto e ha detto di no. Questo sarà novant’anni fa. Questa gente, quando furono venuti i pisani, a poco a poco si furono disperse, ma delle case loro se ne trova ancora. Centottant’anni fa, vivevano le signore di Donnigazza nel rione che si chiamava Donnigazza. Le case loro erano fatte come i nuraghi, ma molto più grandi e in mezzo al giardino. Non uscivano quasi mai se non era al giardino loro. Alla domenica andavano tutte insieme alla messa a un convento dei frati francescani che era in Burècco e nel Cantaréddu e finché non venivano esse, i frati non cominciavano la messa. Si vestivano di lino e di panno che tessevano esse stesse, ma le gonnelle le ricamavano a colori con filo che ordivano esse stesse e in piedi portavano le babbucce ricamate queste pure, in testa portavano un fazzoletto bianco e sotto portavano una cuffia con nastri. Avevano grandi tesori e usavano sotterrarli sotto al pavimento delle case; quando lavavano le vesti, invece di sapone, fregavano crivazzu e il lavoro loro era a filare, a tessere e a ricamare. Quando sono venuti i pisani sono scomparse.
La grotta dei cattivi
Una volta vivevano nei boschi del Sarcidano alcuni banditi e lì passavano la loro vita, sempre nascosti agli occhi della giustizia. Una volta era andato a pascolare a quei monti un gregge destinato a San Sebastiano. I banditi avevano ucciso il pastore e ne avevano rubato il gregge e la notte seguente si erano riuniti nella grotta dei cattivi per mangiare e per bere. I banditi avevano finito di arrostire quel bestiame santo, quando di sopra della grotta una voce dell’inferno così fa: «Ci calo?». Per tre volte questa voce aveva ripetuto queste parole, finché i banditi stanchi così fanno: «E cala, anche ne scendano tutti i diavoli!». Allora la volta della grotta ne cade e schiaccia quei banditi; uno solo si fu salvato perché non aveva voluto pigliare parte a quel pranzo.
Le streghe e San Sisinnio
Nel tempo antico, c’erano in Villacidro le streghe che erano donne brutte che portavano le unghie lunghe ed erano coperte di cenci e succhiavano il sangue dei bambini. Una donna aveva preso a occhio (a mal volere) la moglie del figlio e questa donna era una strega e un giorno si era cambiata a gatto ed era andata a casa della nuora e si era posta accanto alla culla dove c’era coricato il nipotino, per ucciderlo. Allora la mamma se n’era accorta e aveva preso la mazza e gli ha dato un colpo alle labbra e in testa. La nuora il giorno dopo era andata a casa della suocera e l’aveva vista con la faccia e con la testa gonfiata ed aveva compreso che la suocera era una strega di quelle che erano in paese. Una donna ha pregato San Sisinnio di disperdere queste streghe e allora San Sisinnio ne ha legata una ai piedi del letto e poi si furono viste tante streghe legate tutte insieme a volare nell’aria e allora furono buttate nel fuoco. D’allora le streghe non si sono viste più in Villacidro e d’allora San Sisinnio fu detto il santo delle streghe. I serramannesi volevano il santo per cacciare le streghe da Serramanna e una volta erano andati a rubare la reliquia, ma quando erano accanto al fiume di Narti, accanto alla chiesetta, la reliquia del santo era divenuta grave grave e non avevano potuto passare il fiume. Allora i serramannesi avevano portato la reliquia alla sua chiesa, ma adesso pure i serramannesi sono nemici dei villacidresi.
Testi tratti dal libro
"Leggende e tradizioni di Sardegna" di Bottiglioni Gino*
* Gino Bottiglioni nacque a Carrara il 15 settembre 1887; ammesso alla Normale di Pisa, svolse gli studi universitari in quest’ultimo centro toscano, laureandosi nel 1910 in glottologia con Clemente Merlo, per poi perfezionarsi l’anno successivo a Firenze, alla scuola di Pio Rajna e di Ernesto Giacomo Parodi. Per qualche tempo, dal 1912 al 1923, fu quindi professore nelle scuole medie, attività che lo condusse in Sardegna, a Cagliari, fra il 1915 e il 1918, e dal 1923 al 1926 svolse l’incarico di preside presso il liceo Manin di Cremona. Nel 1927 vinse il concorso a cattedra bandito dalla Facoltà di Lettere di Cagliari per l’insegnamento di grammatica comparata delle lingue classiche e neolatine, passando poi, dopo un solo anno accademico, all’Università di Pavia; una decina di anni più tardi si trasferì definitivamente a Bologna, ove tenne, per circa un ventennio, sino al 1957, la cattedra di glottologia. Nella città emiliana morì il 17 maggio 1963. Il lavoro principale di Bottiglioni, frutto di una lunga attività preparatoria e di inchieste pluriennali, resta l’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica, pubblicato a Pisa in dieci volumi, più uno di Introduzione, tra il 1933 e il 1944: l’opera, che riveste un certo interesse anche in relazione alla Sardegna, giacché fra le località inquisite compaiono pure Sassari e Tempio Pausania, rappresenta assai bene la propensione allo studio dei fatti folclorici che sovente costituì parte non marginale nella riflessione linguistica dello studioso toscano.