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Leggende e Tradizioni di Sardegna :: Contus Antigus, informazioni e curiosità sulle leggende sarde, i personaggi, i luoghi e gli esseri fantastici della Sardegna.

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Leggende e Tradizioni di Sardegna. Contus Antigus Sardegna.
Leggende e Tradizioni di Sardegna

Janas, streghe, folletti e spiriti. La Sardegna popolare

In tutta la Sardegna, gli anziani, seduti nel patio della loro casa o accanto al camino nelle lunghe serate invernali, si affrettano con giovanile verbosita a narrare ai piu giovani le antiche storie dell'Isola. Leggende popolate di anime vaganti fra il mondo terreno e quello ultraterreno, di orchi assetati di sangue, folletti maliziosi e Janas (fate) o streghe dalle dimensioni di una mela. Le leggende, tramandate di padre in figlio e scaturite da fatti storici realmente accaduti, come l'arrivo dei vari dominatori provenienti dall'esterno o le guerre e le carestie, si differenziano molto spesso per la variante linguistica in cui sono espresse e per la parlata che ogni territorio o paese si porta appresso, come un'eredita linguistica di cui ogni persona viene omaggiata. Le aperte vocali del sud, il raddoppiamento delle consonanti, caratteristica del Sulcis-Iglesiente, la pastosa armonia delle vocali del centro dell'Isola, la regolarità ritmica del nord o il tabarchino dell'isola linguistica di Carloforte e Calasetta, sono state il mezzo quotidiano di trasmissione delle antiche storie a noi pervenute.
Nel libro "Leggende e tradizioni di Sardegna" di Gino Buttiglioni, pubblicato nel 1922, sono riportate con dovizia di particolari le storie fantastiche narrate dagli anziani. Alcune di esse non mancheranno di stupire per l'efferatezza, per il salomonico senso della giustizia o, semplicemente, per la moderna sensibilita dalla quale sono animate.
A Tempio si narra la storia di un folletto dai sette berretti al quale, un essere umano scaltro e veloce, sottrasse uno dei berretti nascondendolo dentro una pentola annerita dall'uso sul fuoco del camino. Il folletto, sprezzante creatura dei boschi e delle soffitte, abituato ad avere sempre la meglio, dovette invece rinunciare a riavere il suo tesoro poiché alla sua bianca mano non era permesso di sporcarsi con il nero della fuliggine della pentola. Sempre a Tempio, una leggenda narra la storia di una donna che, avendo redarguito con male parole una ragazza vista mentre lavava i pannolini del proprio bambino nelle acque del fiume, portò per sempre i segni di tale affronto: una grossa macchia nera sul viso. La donna vista al fiume, infatti, non era altri che l'anima di una ragazza morta durante il parto, destinata, secondo la tradizione, ad essere seppellita con sapone, aghi, filo e ditale per il cucito.
Ad Aggius, invece, la leggenda narra di una "Stria", personaggio a metà fra una strega e una predatrice di bambini, il classico Babau o l'inglese boogeyman, la quale, tormentato un neonato fino al pianto, vide recisa la sua mano scambiata, dalla madre del bambino, per un filo penzolante dalla cappa del camino.
E' arrivata fino a noi anche la storia del fortunato mortale di Casteldoria che, avendo sbirciato durante la notte le anime dei morti depositare tre monete d'oro, ottenne così per se e per i propri figli un ricco futuro.
Fitta e interessante appare la congerie di fiabe dedicate alle fate (Janas o Gianas) o alle streghe. Una leggenda, narrata a Gino Buttiglioni da un abitante di Pozzomaggiore, racconta come le fate, esseri luminosi dotati di ali, avessero depositato un tesoro perchè gli uomini più accorti potessero attingervi ricchezze di inestimabile valore. Le Janas, la cui etimologia si avvicina molto alle entita soprannaturali preislamiche degli jann (geni), forse collegate al verbo aramaico dal significato evocativo di "celarsi o nascondersi", sono descritte come esseri minuti e veloci che «quando vedevano una persona che ad esse piaceva, andavano vicino al letto e la svegliavano chiamandola tre volte».
A Ghilarza una leggenda narra invece di alcune Gianas molto belle che «vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito». Ad Aritzo, paese della Barbagia di Belvì, le Gianas sono alte non più di venticinque centimetri e si rifugiano nel bosco mentre a Esterzili, nella Barbagia di Seulo, abitano in grotte sontuose. Sempre a Esterzili un’antica storia, sorta attorno al tempio megalitico rettangolare de Sa Domu 'e Urxìa, tenta di informare grandi e piccini sull’esistenza di un tesoro, chiamato “Su Scusorxu”, nascosto in contenitori e custoditi dalla maga Urxìa. A Villacidro a spaventare i bambini sono le streghe di San Sisinnio, vecchie brutte con lunghi capelli e unghie acuminate che succhiavano il sangue e si trasformavano in gatti. A Monserrato, invece, la mitologia locale narra di una bellissima e sfortunata fanciulla che rimase vittima di uno smottamento durante una passeggiata nella miniera d’oro di Genniau, vicino a Sarroch. Chiunque passasse da quelle parti poteva sentire il rumore del telaio che l’anima della poveretta utilizzava in attesa di essere liberata dalla sua prigione d’oro.
Oltre ogni considerazione di tipo linguistico o etnolinguistico, sembra chiaro come la leggenda o la fiaba si facciano oggi portatrici di un doppio valore, quello per l’appunto etnografico, e quello della fantasia tout court, dotata di quella leggerezza che Calvino descrisse come un velo minuto di umori e sensazioni.

Testo di Matteo Tuveri
Il Basilisco. Cagliari chiostro di San Domenico
Il Basilisco
Il basilisco è uno degli animali fantastici più interessanti e inquietanti del bestiario medievale. Il primo autore che ne parla, attribuendogli un significato simbolico, è Onorio D’autun (prima metà del XII sec. d.C.) che riprendendo il versetto di un salmo identifica il basilisco con la morte. Lo troviamo citato da una serie di autori fondamentali, tra cui Plinio (II sec d.C), Teofilo (inizi del XII sec. d.C.), Alberto magno (1280), come pericoloso re dei rettili (così suggerisce anche la stessa etimologia derivata dal greco), crestato o coronato. Ma più in particolare è descritto come un gallo dotato di coda serpentiforme, zoppo, con un collare di sarmento e con il potere di uccidere con l’afflato e con lo sguardo. Le sue caratteristiche fisiche sono molto importanti per individuarne l’indole malvagia. Il gallo è l’animale che per tradizione è capace di scacciare gli stregoni riuniti per la tregenda con il suo canto; l’imposizione del collare da parte degli stregoni avrebbe impedito al gallo di cantare. Il sonaglio nella tradizione identifica il portatore del male e della dementia (si pensi ai lebbrosi o ai folli con il berretto a sonagli) ma al tempo stesso ha un valore apotropaico. La coda di serpente dichiara la natura diabolica dell’animale e infatti nella tradizione medievale il diavolo è raffigurato zoppo e munito di coda di serpente. Le uniche armi contro il potere del basilisco sono lo specchio che riflettendo il suo sguardo mortale uccide l’animale riflesso o la donnola, animale immune ai poteri del re dei rettili grazie alla ruta, erba medicinale di cui si nutre. Questa creatura non ha solo terribili capacità, la sua stessa nascita è mostruosa: il basilisco nasce infatti da uova partorite magicamente da galli maschi e covate da rospi. Le uova schiudendosi rivelano pulcini sempre maschi a cui in breve tempo spunta la coda da rettile. Il suo sangue nella tradizione guarisce dai malefici e nel Medioevo si era convinti fosse realmente esistente tanto che spesso veniva rappresentato nelle chiese come monito per i fedeli. San Domenico ne aveva addomesticato uno e forse è anche per questo che nel chiostro della chiesa di San Domenico a Cagliari (che è stata sede dell’Inquisizione) un basilisco è scolpito su una delle colonne che conducono all’ingresso della chiesa. Tra le decorazioni fitomorfe della colonna antistante quella del mostro fa capolino proprio una donnola. In Sardegna a lungo si è identificato questo animale con una versione nostrana chiamata iscurtone o sculzone, una sorta di tozza lucertola dai poteri letali. La cronaca recente ha riportato avvistamenti veri o presunti di questo temibile animale nelle campagne dell’Ogliastra e del Nuorese.


Testo di cura di Giacomo Pisano
Leggende Sarde Storie e Aneddotti Popolari: Sa Babbaieca
Leggende, Storie ed Aneddoti Popolari.

“Sa Babbaieca”
A Gairo, come anche in altre parti della Sardegna anche se con nomi differenti, “Sa Babbaieca” è il toponimo di un sentiero che finisce in un precipizio nel quale, in età preistorica, venivano spinti i vecchi dai propri figli, perché reputati improduttivi e semplicemente ingombranti. Infatti la parola “Babbaieca” deriva da “Babbai” che significa babbo, ed “Eca” che significa entrata o uscita da o verso un sentiero campestre. Babbaieca, quindi, significa uscita del babbo, nonno, o vecchio. Questa tradizione sarebbe avvalorata dalla testimonianza di Timèo, storico greco – siciliano, vissuto tra il 356 ed il 260 a. C., il quale scrisse che in Sardegna in vecchi venivano eliminati, facendoli precipitare da alti diruppi, percotendoli con dei bastoni. L’imboccatura del sentiero che portava al precipizio si trovava nei pressi del ponte sul Rio Pardu, a tre chilometri dal centro abitato. La leggenda racconta della fine di quella usanza colma di barbara ingratitudine. Come già tante volte accadde, i familiari più prossimi portarono su per quel sentiero il proprio vecchio padre. Quando già si stavano apprestando a spingerlo giù da quel baratro, egli chiese ai figli che prima del grande salto gli permettessero di riposarsi in quanto era stanco. «Anch’io,» disse il vecchio rivolgendosi ai figli «in questo sasso lasciai sedere mio padre quando lo condussi a sa Babbaieca». I figli acconsentirono all’estrema richiesta del vecchio ormai condannato. Ma, mentre guardavano il babbo seduto su quel sasso che aveva visto tanti vecchi attraversare quel punto e non tornare più indietro, un pensiero terrorizzante pervase le loro menti e rabbrividirono al pensiero che un giorno anch’essi sarebbero stai condotti dai rispettivi figli per quel sentiero fino a giungere al baratro che avrebbe decretato la loro tragica fine. Così, guardandosi negli occhi, ciascuno scorse nel volto degli altri il proprio terrore di una fine inevitabile. Fu allora, in preda a tanta paura mista a compassione per il vecchio genitore e per loro stessi, che decisero di riportare a casa il loro vecchio ma saggio padre e di tenerlo nascosto agli occhi dei tutori di quel macabro rito. Da quel giorno il benessere riempì la loro dimora, suscitando la sorpresa degli altri membri della piccola comunità paesana, i quali con il passare del tempo divennero sempre più curiosi di venire a capo delle cause che lo avevano generato. Scoprirono poi che quel benessere era dovuto ai saggi consigli che il vecchio padre nascosto dava ai propri figli, e che, quindi, la saggezza che egli aveva maturato durante la sua vita poteva essere utilissima ai giovani. Ne conseguì la decisione di abbandonare la pratica di quel rito che altro non portava che la perdita di un prezioso bagaglio culturale che avrebbe tanto giovato alla società la quale sarebbe stata abbondantemente compensata per l’ingombro che fino ad allora era stato la causa della pratica di un rito così crudele. Quell’uso infausto viene ancora ricordato nelle imprecazioni che gli adirati lanciano contro chi dà loro fastidio:
Ancu ti ‘nci ettintiti in sa Babbaieca!! (Che possano gettarti nella Babbaieca).

Varie Leggende popolari sarde, storie tramandate oralmente in Sardegna.
Il folletto dalle sette berrette
Una notte uno, dopo un paio d’ore che si era addormentato, sente come un affanno nel petto, come un peso che non lo lasciava respirare, una oppressione che non lo lasciava quietare. Si desta e dacché si avvede che ha il folletto dalle sette berrette sopra, stende la mano, gli piglia una berretta e la nasconde lesto lesto in una pentola fuligginosa. Il folletto che aveva una mano bianca come la neve, per la paura d’imbrattarsela, non cerca nemmeno di pigliargli la berretta e così il tesoro è rimasto a quello, perché così era stato destinato dal morto che l’aveva nascosto.

La donna col viso macchiato
Una mattina, una donna se n’era alzata presto presto per andare all’acqua alla fonte di Pástini. Era l’una di notte, quando, arrivata vicino a un fiume che vi è a fianco alla fontana, sente come il rumore d’una che sia sciacquando. S’accosta al fiume e vede questa giovane sciacquando i pannolini d’un neonato e pronta pronta le dice: «Vuol dire che l’ora non ha ingannato se non che me (me sola), e non sai che te ne sei venuta bella lesta a lavare?!». E quella senza rispondere; allora si accosta di più e glielo torna a dire. Alla terza volta, quella alza il capo, le scaglia il pannolino sulla faccia e le dice: «Eh che mi hai fiaccata (interrotta) la penitenza!». Era l’anima di una giovane morta nel parto e quella donna, dal giorno (da quel giorno), ebbe il viso macchiato.

La schiera dei morti
Sono già tanti secoli che in Tempio vi aveva una signora ricca ricca ma avara. Questa un giorno va in chiesa e in una sedia si dimentica il rosario e la chiavetta della cassaforte. Arrivata a casa, se ne avvede e manda la serva a prenderla. Siccome era notte, la serva prima non ci voleva andare, ma dopo vi è andata. Vicino alla chiesa, incontra tre uomini, si avvicinano e saputo dov’era andando le dicono: «Mira, in chiesa troverai la schiera dei morti, mira che balleranno in giro a te, cercheranno di farti male, tu non temere, ma fatti la croce e dí queste parole:

Ho incontrato in via
Paolo, Pietro e Andrea
E stanno venendo con meco
Andrea, Paolo e Pietro
Son con meco in compagnia
Paolo, Pietro e Andrea.

La serva entra in chiesa, trova la schiera che gliene fa di tutti i colori, ma essa non teme, dice quelle parole e la schiera scompare.



Nuraghe di vacca
Era una notte tempestosa, nelle campagne di Luogosanto vi aveva un silenzio grande, pareva che tutti fossero addormentati. Ecco che in quel buio, si vede un uomo incappucciato, col fucile in collo e la lancia in mano. S’accosta a uno stazzo, guarda bene in giro e dacché non vede anima viva, entra, ruba una vacca e corre finché arriva a un nuraghe. Qui si riposa, lega la vacca a un masso grande di pietra e si prepara ad ammazzarla. Guarda di nuovo in giro ed è pronto già ad infilarla con la lancia, quando si sente, in quella notte silenziosa, un colpo di archibugio e un grido. L’uomo incappucciato lascia andare la lancia e cade morto. Intanto un altro uomo si avvicina al nuraghe, prende la vacca e la porta al suo stazzo. Da quella notte, e son già secoli, il nuraghe ha preso quel nome.

La potenza della felce maschio
Un bandito, il giovane più fiero della Gallura che nemmeno la giustizia aveva potuto prendere, si era posto in mente di avere i tre fiori della felce maschio, perché se si avevano questi tre fiori, non si poteva morirne, quando si era colpiti dal piombo. Per avere questi tre fiori, bisognava andare in un fiume lontano lontano donde non si poteva intendere canto di gallo e bisognava andare il primo giorno di agosto. Questi fiori sarebbero sbocciati a mezzanotte, ma non bisognava avere nessuna paura per qualunque cosa si fosse presentata. Dunque questo bandito, il primo giorno d’agosto, si pone in cammino per andare a questo fiume; quando era uscito, la nottata era proprio bella, ma a mezzanotte si scatena questa po’ po’ di tempesta: grandine, lampi, tuoni, baleni, lingue di fuoco da tutte le parti, sopra il capo, nei piedi ed egli fermo, aspettando a sbocciare il fiore. Ecco che alla luce d’un lampo, vede sbocciando il fiore, lo raccoglie e aspetta il secondo. Egli aspetta senza spaventarsi per vedere passando (passare) tori, vacche, cinghiali che cercavano di dargli (fargli del male). Ecco che viene un serpente; questo comincia a stringergli la caviglia, la coscia, e a poco a poco arriva al collo e sembra che lo voglia strangolare; egli si crede proprio all’estremo, quando il serpente se lo guarda fisso negli occhi e manda un fischio stridente, scompare e sboccia il secondo fiore. Il bandito è tutto contento e, credendo di poter liberare così subito subito l’uomo dal piombo, aspetta il terzo fiore. Passano pochi minuti, quando in mezzo a quel silenzio, s’intende questo po’ po’ di frastuono, di cavalli e di uomini armati; nel principio il bandito con la speranza è stato fermo al suo posto, ma quando vede accostandosi (accostarsi) una frotta di carabinieri, teme, crede che sia scoperto e tira un colpo d’archibugio. Il terzo fiore certamente non è sbocciato, peggio per l’anima dell’uomo che non ha resistito, e il piombo, per conto suo, è facendo (continua a fare) il suo cammino.



Le Gianas e le Signore di Donnigazza
Le Gianas erano piccoline piccoline e vivevano nelle case delle Gianas in Trempu e in San Giovanni. Erano molto belle e si vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito e posto alla Santa Zita e con le collane d’oro e cucivano e filavano e lavoravano nella loro terra. Le case delle Gianas sono sul monte e i mobili erano piccolini come esse e tutti i piatti fioriti. Questa gente vivevano appartate dalle altre ed erano molto religiose; la chiesa loro era come la teniamo noi. Siccome le Gianas erano molto ricche, nel loro recinto hanno trovato molte cose di valore. Quando nonna era piccola ne aveva visto una in Orgono che l’aveva toccata e l’aveva interrogata dove andava e se voleva andare insieme con essa; essa ha temuto e ha detto di no. Questo sarà novant’anni fa. Questa gente, quando furono venuti i pisani, a poco a poco si furono disperse, ma delle case loro se ne trova ancora. Centottant’anni fa, vivevano le signore di Donnigazza nel rione che si chiamava Donnigazza. Le case loro erano fatte come i nuraghi, ma molto più grandi e in mezzo al giardino. Non uscivano quasi mai se non era al giardino loro. Alla domenica andavano tutte insieme alla messa a un convento dei frati francescani che era in Burècco e nel Cantaréddu e finché non venivano esse, i frati non cominciavano la messa. Si vestivano di lino e di panno che tessevano esse stesse, ma le gonnelle le ricamavano a colori con filo che ordivano esse stesse e in piedi portavano le babbucce ricamate queste pure, in testa portavano un fazzoletto bianco e sotto portavano una cuffia con nastri. Avevano grandi tesori e usavano sotterrarli sotto al pavimento delle case; quando lavavano le vesti, invece di sapone, fregavano crivazzu e il lavoro loro era a filare, a tessere e a ricamare. Quando sono venuti i pisani sono scomparse.

La grotta dei cattivi
Una volta vivevano nei boschi del Sarcidano alcuni banditi e lì passavano la loro vita, sempre nascosti agli occhi della giustizia. Una volta era andato a pascolare a quei monti un gregge destinato a San Sebastiano. I banditi avevano ucciso il pastore e ne avevano rubato il gregge e la notte seguente si erano riuniti nella grotta dei cattivi per mangiare e per bere. I banditi avevano finito di arrostire quel bestiame santo, quando di sopra della grotta una voce dell’inferno così fa: «Ci calo?». Per tre volte questa voce aveva ripetuto queste parole, finché i banditi stanchi così fanno: «E cala, anche ne scendano tutti i diavoli!». Allora la volta della grotta ne cade e schiaccia quei banditi; uno solo si fu salvato perché non aveva voluto pigliare parte a quel pranzo.

Le streghe e San Sisinnio
Nel tempo antico, c’erano in Villacidro le streghe che erano donne brutte che portavano le unghie lunghe ed erano coperte di cenci e succhiavano il sangue dei bambini. Una donna aveva preso a occhio (a mal volere) la moglie del figlio e questa donna era una strega e un giorno si era cambiata a gatto ed era andata a casa della nuora e si era posta accanto alla culla dove c’era coricato il nipotino, per ucciderlo. Allora la mamma se n’era accorta e aveva preso la mazza e gli ha dato un colpo alle labbra e in testa. La nuora il giorno dopo era andata a casa della suocera e l’aveva vista con la faccia e con la testa gonfiata ed aveva compreso che la suocera era una strega di quelle che erano in paese. Una donna ha pregato San Sisinnio di disperdere queste streghe e allora San Sisinnio ne ha legata una ai piedi del letto e poi si furono viste tante streghe legate tutte insieme a volare nell’aria e allora furono buttate nel fuoco. D’allora le streghe non si sono viste più in Villacidro e d’allora San Sisinnio fu detto il santo delle streghe. I serramannesi volevano il santo per cacciare le streghe da Serramanna e una volta erano andati a rubare la reliquia, ma quando erano accanto al fiume di Narti, accanto alla chiesetta, la reliquia del santo era divenuta grave grave e non avevano potuto passare il fiume. Allora i serramannesi avevano portato la reliquia alla sua chiesa, ma adesso pure i serramannesi sono nemici dei villacidresi.

Testi tratti dal libro
"Leggende e tradizioni di Sardegna" di Bottiglioni Gino*

* Gino Bottiglioni nacque a Carrara il 15 settembre 1887; ammesso alla Normale di Pisa, svolse gli studi universitari in quest’ultimo centro toscano, laureandosi nel 1910 in glottologia con Clemente Merlo, per poi perfezionarsi l’anno successivo a Firenze, alla scuola di Pio Rajna e di Ernesto Giacomo Parodi. Per qualche tempo, dal 1912 al 1923, fu quindi professore nelle scuole medie, attività che lo condusse in Sardegna, a Cagliari, fra il 1915 e il 1918, e dal 1923 al 1926 svolse l’incarico di preside presso il liceo Manin di Cremona. Nel 1927 vinse il concorso a cattedra bandito dalla Facoltà di Lettere di Cagliari per l’insegnamento di grammatica comparata delle lingue classiche e neolatine, passando poi, dopo un solo anno accademico, all’Università di Pavia; una decina di anni più tardi si trasferì definitivamente a Bologna, ove tenne, per circa un ventennio, sino al 1957, la cattedra di glottologia. Nella città emiliana morì il 17 maggio 1963. Il lavoro principale di Bottiglioni, frutto di una lunga attività preparatoria e di inchieste pluriennali, resta l’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica, pubblicato a Pisa in dieci volumi, più uno di Introduzione, tra il 1933 e il 1944: l’opera, che riveste un certo interesse anche in relazione alla Sardegna, giacché fra le località inquisite compaiono pure Sassari e Tempio Pausania, rappresenta assai bene la propensione allo studio dei fatti folclorici che sovente costituì parte non marginale nella riflessione linguistica dello studioso toscano.

Gairo tramonto a Perda e Liana, Gairo. Leggende Popolari Sardegna
SA FOGI ‘E SUSANNA
A cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, sembra che fosse scoppiata una faida fra due potenti famiglie di Gairo, i Lorrai e i Depau. Il primo febbraio del 1805 fu il turno di Pasquale Lorrai, il 5 dello stesso mese toccò a Pasquale Depau, e ad un mese preciso da quest’ultimo, il 5 marzo, fu la volta di Sebastiano Lorrai. Le morti, quindi, spesso si alternavano a distanza di pochissimo tempo e tutti furono uccisi de belassu, cioè in un agguato, da una fucilata sparata a freddo da uno sconosciuto intenzionalmente appostato per compiere quell’atto, frutto probabilmente di una vendetta di cui si ignorano i motivi che la scatenarono. Un altro membro de s’areu de is Lorrais, cioè della famiglia dei Lorrai, che rispondeva al nome di Felice Lorrai, venne ucciso già nel 1792 ed un altro, Salvatore Lorrai, nel 1813. È probabile che furono vittime della medesima faida anche altre persone che rispondevano a cognomi differenti da quelli già nominati. Ancora, nel 1816 cadde un altro membro della famiglia Depau, Raimondo, e l’anno successivo, nel 1817, morì Susanna Depau. Quest’ultima, fu trovata sepolta nella zona di Geddì, lungo il rio Sarcerei, in cui era stata anche uccisa. La sua morte, però, non fu causata dalla solita fucilata sparata nel mezzo di un’imboscata tesa da uno sconosciuto, ma da un fatto ancora più cruento: vi venne spinta dalla propria sorella per morirvi subito dopo annegata, quando ancora era incinta: il motivo era che il figlio che portava in grembo era illegittimo. In base ai dati raccolti e riportati sul testo DATI RELATIVI ALLA STORIA DEI PAESI DELLA DIOCESI D’OGLIASTRA – VOL. 1, scritto da Don Flavio Cocco, da cui è tratto questo racconto, visto il clima micidiale di tensione che regnava allora, non si esclude che la donna sia stata tradita dalla parte avversa per una diabolica e raffinata vendetta. La sua storia viene ricordata ancora oggi in quanto la conca in cui è affogata ha preso il suo nome affinché non ci si dimenticasse di quel tragico gesto. Sempre in base al suddetto testo, ci sono motivi per ritenere che le faide che avvennero a Gairo a cavallo fra quei due secoli, fossero legate a quelle che nello stesso periodo imperversavano a Tertenia. Ciò perché tra le vittime di Tertenia, vi erano spesso Lorrai imparentati con i Lorrai di Gairo, nonché altra gente imparentata con la famiglia avversaria. Per porre fine a quel lungo susseguirsi di omicidi fra le due famiglie, è probabile che sia stato combinato qualche matrimonio affinché venisse dimostrato che era possibile vivere insieme ed in pace. È infatti certo che Peppa Depau, la stessa che diede il suo nome alla fontana abbondante e freschissima che sgorga a un centinaio di metri dal cimitero del vecchi abitato, era sposata con un Lorrai, anche se non si ha la certezza del fatto che questo matrimonio fosse stato combinato veramente a tale scopo.

PERDA ‘E LIANA PORTA DELL’INFERNO
Considerando che il monte ha avuto una grande importanza nell’antichità non è strano che su di esso siano nate storie popolari e leggende. Una di queste, diffusa soprattutto nel Nuorese, narra che il Tacco calcareo, nei pressi del-l’attuale confine tra i territori Comunali di Gairo e Seui, sarebbe una delle porte dell’inferno, da dove, al chiar di luna piena, uscivano diavoli e streghe per mettere nei pasticci i comuni mortali. Non solo. In tali occasioni chi desiderava diventare ricco doveva recarsi sul posto ad offrire al demonio la propria anima: in cambio ne avrebbe ricevuto qualunque ricchezza. La gente, quando si accorgeva che una persona diventava ricca velocemente, diceva che era andata a Perda ‘e Liana. Tali racconti leggendari erano ricordati così:
a sa Perda ‘e Liana / a Perda ‘e Liana
su hi heres ti dana! / ciò che chiedi ti danno!

A tale proposito si narra che un giovane d’Oliena vi si recò per chiedere, durante una sera di luna piena, molte ricchezze e, dopo aver camminato a lungo, giunse sul posto al tramonto: il Tonneri era bellissimo ma in quelle ore e con il sole oramai al crepuscolo, il Tacco calcareo emanava dei colori suggestivi, che diffondevano nell’area una sinistra irrequietudine. A mezzanotte, con la luna piena alta nel cielo, vide apparire un gran numero di demoni e streghe che si misero a danzare sulla cima del Torrione. Dopo i primi momenti di smarrimento ed insieme di paura e stupore, si fece coraggio e chiese di poter parlare con il loro capo. Gli fu indicato uno più grosso degli altri che stava facendo girare in tondo un asinello come se fosse ad una macina. Il dorso di questo era appesantito da una grossa bisaccia colma di monete d’oro che facevano un gran tintinnare fragoroso ad ogni passo dell’animale. Quando il capo di demoni con i suoi occhi che sembravano tizzoni ardenti fissò il giovane attendendo che questo gli offrisse l’anima in cambio della bisaccia ricolma dell’oro, costui, assalito dal terrore, invocò il cielo esclamando:

Gesusu, Maria e Giuseppi! / Gesù, Maria e Giuseppe
Eita esti custa camarada! / Che cos’è questa disgrazia!
Santa Giulia avocada, / Santa Giulia ti invoco,
Bogamindi de mesu! / Toglimi da mezzo ai guai!

A quelle parole, tutti i demoni e le streghe scomparvero come fossero stati inghiottiti dalle rocce ed il malcapitato giovane pote tornare a casa più povero di prima, ma senza aver venduto l’anima al diavolo.

 

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