Medicina e Superstizioni
I Sardi del passato, a sentir parlare di medicina omeopatica, non avrebbero certo pensato a terapie mediche basate sull'utilizzo di elementi naturali, in particolare erbe. Con molta probabilità se ne sarebbero meravigliati, interpretando la definizione alla stregua di una parola misteriosa. E, invece, proprio a questi principi si allineavano, in larga misura, i rimedi tradizionali, ai quali si ricorreva per curare molte malattie, sia degli esseri umani che degli animali.
Peraltro, le preoccupazioni per la salute erano forti che, in caso di malanni, non ci si limitava alle erbe, ma si faceva ricorso a tutti gli elementi ritenuti in grado di procurare la guarigione. Si passava, così, con la massima disinvoltura, dall'acqua ai rituali magici, dalle superstizioni alle invocazioni a Dio e ai Santi. Vastissima era, dunque, la gamma di terapie per curare i diversi mali.
Incominciando dall'acqua, va rilevato che il popolo ha sempre fatto molto affidamento sulle sue proprietà terapeutiche: una credenza che ha avuto origine nell'antichissimo culto pagano, ed ha conservato validità anche con l'avvento del cristianesimo.
Sul culto delle acque merita di essere riportato quanto ha scritto Gino Bottiglioni (1922): <<.... di queste superstizioni si impossessò ben presto la Chiesa, che le adattò alle sue pratiche ed ai suoi riti, sicché oggi nulla di pagano si ritrova nelle credenze sarde intorno alla virtù delle acque, le quali anzi, quasi sempre, portano il nome di un Santo. La civiltà pagana e la cristiana si trovarono di fronte e dovettero lottare accanitamente anche in Sardegna, ma è fuori dubbio che anche qui la vittoria completa rimase al cristianesimo, dal momento che esso potè spegnere nella fantasia del popolo tutta la serie di superstizioni e di leggende, che dovettero fiorire in età romana e preromana.>>
Va rilevato, comunque, che questa vittoria del cristianesimo ha implicato l'accettazione dell'acqua nel suo culto (basta pensare all'acqua benedetta). Perfino in questo secolo ha trovato terreno fertile nel popolo il convincimento che molti torrenti e sorgenti avessero proprietà curative eccezionali, ed alle loro acque, dopo essercisi immersi in particolari circostanze (ad esempio, la notte di San Giovanni), si sono attribuite guarigioni improvvise e, per ciò stesso, considerate miracolose.
Si è verificato, insomma, un sincretismo che va al di là del culto delle acque, per interessare numerosissimi aspetti nel campo della medicina, delle superstizioni e degli amuleti in cui la commistione fra sacro e profano è quanto mai evidente.
E a ben poco sono valse le ripetute condanne di diversi sinodi (Torres nel 1606 e 1644, Ampurias nel 1695, Bosa nel 1729).
Un esempio di questa commistione viene dal modo con cui si cercava di curare gli effetti del malocchio, particolarmente temuto dai sardi, che si manifestavano con spossatezza, emicrania e febbre.
Fra i vari rimedi, uno consisteva nel procurarsi un bicchiere (che probabilmente simboleggiava il calice) d'acqua, possibilmente benedetta, e tre chicchi di grano.
Il bicchiere andava tenuto con la mano destra ed i chicchi con la sinistra, lasciandoli cadere, uno alla volta, dentro l'acqua e recitando versetti indirizzati a Dio ed ai Santi.
Se intorno ai chicchi si formavano bolle d'aria, ciò significava che effettivamente si trattava di malocchio.
In questo caso si facevano sul bicchiere alcuni segni di croce ed il paziente doveva sorseggiare un po' d'acqua. Quel che restava veniva versato nella cenere per evitare che altri lo bevessero e, al tempo stesso, che potesse subire contaminazioni.
A Sassari nel bicchiere d'acqua si gettava una piccola pietra e dalle bolle che venivano in superficie, dopo aver fatto il segno della croce, si deduceva se il malocchio era stato vinto o se occorreva ripetere l'operazione.
Un'altra procedura imponeva di mettere l'acqua in una pentola, dove si facevano cadere i chicchi di grano e, per ciascuno di essi, una goccia di olio e un po' di sale. Contro la rogna, invece, era sufficiente lavarsi abbondantemente viso e mani con la sola acqua.
Per gli spaventi e qualsiasi trauma psichico si ricorreva a s'imbrusciadùra (letteralmente, avvoltolarsi per terra), che constava di molte varianti.
Una di esse si traduceva nel condurre l'interessato nel luogo in cui aveva subito il trauma e farlo rotolare tre volte per terra in una sequenza di precisi movimenti: il tutto da ripetere per alcuni giorni.
La stessa procedura si poteva attuare anche di primo mattino presso il cancello di un cimitero o sulle sponde di un fiume, e perfino in casa, facendo adagiare l'ammalato su una coperta, nella quale si stendeva un po di terra presa dal luogo in cui aveva riportato lo spavento. In quest'ultimo caso, il paziente veniva avvolto nudo in un lenzuolo ed era assistito da un'esperta: si credeva che, col rivoltarsi, lo spavento passasse dal malato alla terra della coperta, e venisse infine assorbito da un qualsiasi animale fatto entrare proprio a tale scopo nella stanza.