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Armungia








La vita del villaggio che rievoco è quella di una comunità montanara di contadini-pastori, originariamente tutti pastori-cacciatori. Credo di aver vissuto gli ultimi avanzi di una comunità patriarcale, senza classi e senza stato. L’ordine pubblico era l’ordine tradizionale del villaggio, garantito da una libera associazione di contadini-pastori, al cui consiglio degli anziani era affidato il compito di regolare i rapporti interni del territorio, press’a poco come erano regolati con la «Carta de Logu» dei giudici d’Arborea. L’unità tribale vi era resa facile grazie alla struttura del terreno, collina dall’aspetto geologico d’alta montagna, con pochi passaggi obbligati per accedervi. Questi costituivano, da sempre, prima della introduzione nell’Isola del feudalesimo, importato dagli aragonesi, la difesa della comunità contro l’invasore. Quando io ero giovanissimo, nel villaggio si contavano oltre duecento cavalli, in media più d’uno per famiglia; alla fine dell’ultima guerra mondiale, erano dieci. Mio nonno paterno, sempre a cavallo, non permetteva che nessuno dei figli montasse sul suo cavallo personale. Persino dal contadino-barbiere, una o due volte per settimana, per percorrere una distanza inferiore ai duecento metri, andava a cavallo. E per legare il cavallo, di fronte alla casa del barbiere, aveva fatto inserire nel muro un pezzo di ginepro, con un anello simile alle «campanelle» che ornano ancora i palazzi storici di Firenze. In casa nostra, finché io ero in Sardegna, veniva conservata ancora, e messa in vista per esservi ammirata, la vecchia sella di mio padre quand’era giovanotto.